lunedì 5 gennaio 2009

RECENSIONE di Francesca Molinaro (Bottega scriptamanent, gennaio 2009)

L’isola di Cefalonia, la strage dell’Acqui: in 12mila muoiono, due soli i superstiti

di Francesca Molinaro 

Incredibile storia di Salvatore Di Rado un sopravvissuto al massacro greco; reportage intenso, edito da Solfanelli


21 Settembre 1943, uno dei tanti giorni della Seconda guerra mondiale, ma per Salvatore Di Rado è il giorno del suo “nuovo” compleanno, il giorno in cui lui e i suoi compagni della Divisione Acqui vengono fucilati sull’isola di Cefalonia, in Grecia. È questo il cruento incipit del libro La collina dei fuochi fatui(Solfanelli, pp. 160, € 12,00), scritto con realismo e passione dal giornalista e scrittore  Emiliano D’Alessandro. Perché il titolo parla di fuochi fatui? Questi ultimi sono delle piccole fiamme che appaiono talvolta nei cimiteri, dovute alla spontanea accensione di prodotti gassosi proprie della decomposizione dei cadaveri. In questo caso non ci si trova in un vero e proprio cimitero, ma sull’isola di Cefalonia, ribattezzata “l’isola della morte”, in cui nel 1943 morirono migliaia di “quelli che furono considerati traditori” italiani, fucilati dall’esercito tedesco, dopo la fuga, l’8 settembre, dei reali italiani. Quelle stesse fiammelle appaiono al giovane giornalista che, dopo oltre sessant’anni da quel terribile giorno, intervista uno dei pochi sopravvissuti, Salvatore Di Rado nella sua casa in Abruzzo. Il giovane giornalista parte da casa con l’intenzione di fare la sua intervista e “via”, un paio d’ore con un vecchietto, nella speranza che ricordi ancora tutto. E invece le cose vanno diversamente, le due ore diventano ben presto una lunga notte fredda e ricca di fuochi fatui, dove l’anziano si dimostra essere un arzillo novantenne dalla memoria lucidissima. Infatti, il vecchio Salvatore racconta per filo e per segno come il giovane Salvatore sia sopravvissuto alla fucilazione di massa avvenuta quella mattina del 21 settembre: «Sentii solo una raffica di mitra e nulla più. Mentre il tempo e lo spazio apparivano a me dilatati, il proiettile stava ormai per concludere la sua corsa letale. Pensai, ci siamo! Nemmeno un grido per quella nube di sangue. Fu in questo momento che mi fucilarono». Queste parole dalla lucidità sconcertante danno il senso della storia quasi surreale vissuta dal giovane Salvatore. Uno dei dodicimila ragazzi che partirono per quella spedizione, l’unico che è tornato per raccontarlo.

 

Sull’isola e davanti al camino

La narrazione è un continuo parallelo fra la vita tranquilla dell’ormai anziano Salvatore, in una modesta casa, con un piccolo caminetto che emana solo qualche fiammella, una moglie dedita alla cucina e in continua ansia per il marito un po’ troppo esuberante per la sua età, e l’avventura vissuta sull’isola greca. Il passato lo racconta come se stesse avvenendo in quell’istante, permettendo al lettore di rivivere con lui quel momento agghiacciante: «Feüer! Fuoco! Fu quella l’ultima parola che potei udire prima di essere fucilato. […] Riuscii, come qualunque incurante spettatore, a rincorrere con lo sguardo le pallottole che mi avrebbero tolto la vita e quelle che avrebbero spezzato l’esistenza dei miei compagni». Con queste frasi sconcertanti l’autore getta il lettore nella storia, senza una precisa contestualizzazione temporale o spaziale. Ci si trova insieme al protagonista ad aspettare quelle pallottole, quasi ne sentiamo l’odore. «Le narici erano piene, sature d’un odore acre, forte, e tutta l’aria circostante era ormai impregnata di quel tanfo disgustoso […] ti penetrava nella pelle, quasi la si poteva toccare». Nemmeno a metà del primo capitolo, quando d’improvviso la narrazione ci riporta al presente, si capisce di cosa si stia parlando, è solo alla fine del capitolo stesso che si inizia a parlare di Isola della morte. L’autore è molto abile nel mantenere la tensione fino all’ultimo, in modo che il lettore sia impossibilitato a metter giù il libro, lo si potrebbe leggere tutto d’un fiato, senza sosta. La guerra viene vista da una duplice prospettiva, quella un po’ ingenua ma coraggiosa del ventiseienne Salvatore, e quella dell’ormai anziano e saggio Salvatore che, vicino al camino della sua piccola casa in campagna, ha ancora le lacrime agli occhi e il groppo in gola per gli amici persi in quel terribile giorno. Il giorno della sua rinascita, il protagonista si salva grazie ad un proiettile che devia la sua traiettoria verso la gamba di Salvatore, lasciandolo un po’ stordito ma vivo. Il giorno in cui lui e un altro miracolato, un altro Salvatore, sono scampati alla fucilazione per poter poi trovare insieme una via d’uscita: «Tese la mano al connazionale, si strinsero in un generoso e magnetico abbraccio. È proprio vero che ci si rende conto di ciò che importante soltanto in determinate circostanze». Ed è grazie al suo omonimo e ad alcuni abitanti dell’isola, che lo ribattezzano Sotyris, che Salvatore trova la via di casa e l’amore. 

 

Francesca Molinaro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 17, gennaio 2009)


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