venerdì 13 giugno 2008

RECENSIONE di Maria Francesca Calvano

Dentro la busta gialla e rettangolare che trovo distesa sulla scrivania, al mio ritorno a casa, c’è La collina dei fuochi fatui. Un libro col titolo in blu e due fasce rosse che corrono lungo i bordi verticali per congiungersi solo in fondo alla copertina, tramite quella scia informe di sangue ch’è l’unica nota di colore di un bellissimo disegno di Tanino Liberatore. Sì, sangue. Perché quella raccontata in questo libro è una storia di guerra e di morte, ricordata sui libri come l’“eccidio di Cefalonia”: una strage immane. Sull’isola greca, nel settembre 1943, migliaia di italiani morirono ammazzati dai tedeschi per l’ansia di punire quei “traditori” che avevano firmato l’armistizio con gli anglo-americani.
Ma, inaspettatamente, questa è anche una storia di salvezza, di buona sorte, di vita. Ed è, sebbene nota, una storia mai raccontata. Mai raccontata così come lo fa l’autore, Emiliano D’Alessandro. Tutto ciò che dobbiamo sapere dal punto di vista storico a proposito di quei terrificanti giorni sull’isola, che per la Divisione Acqui saranno gli ultimi, si può ritrovare nelle pagine de La collina di Cefalonia, ma soltanto tra le righe di un libro che è soprattutto un diario. Quello di un uomo, Salvatore Di Rado, che, ormai novantenne, racconta ad un giovane giornalista come la sua vita finì per finzione a Cefalonia il 21 settembre 1943.
Lui, morto fucilato per tutti, per i tedeschi innanzitutto, che l’avevano messo in fila con i suoi compagni italiani davanti al plotone d’esecuzione e gli avevano sparato. Quella pallottola che, nelle primissime pagine, vediamo fendere l’aria, nella descrizione al rallentatore dei pensieri di Salvatore Di Rado un istante prima degli spari, avrebbe dovuto penetrare il suo torace. Un’altra avrebbe dovuto colpirlo alla testa, e allora sarebbe stata davvero la fine. Due colpi sparati dai fucili dei tedeschi, puntati contro bersagli inermi come al luna park, annientarono infatti l’intera Divisione Acqui. Morirono tutti i suoi soldati. Morì l’omone al fianco di Salvatore Di Rado, il martire senza nome che, con la sua stessa enorme stazza, gli fece involontariamente da scudo, salvandolo dalle pallottole dei tedeschi. Morirono tutti, attorno. Ma non lui.
Salvatore Di Rado muore sì, ma per finta. Riverso sui cadaveri dei compagni, ufficialmente è morto. E morire senza morire significa aver salva la vita. Significa fuggire, lasciare quel posto di morte rimanendo ancorato all’esistenza, significa sporcarsi gli stivali, sentire caldo, freddo, fame, sete, il dolore di una ferita. Significa vivere e, soprattutto, diventare un testimone. Poter raccontare ciò ch’è stato, sessant’anni dopo. E la penna che raccoglierà i ricordi apparterrà ad Emiliano D’Alessandro.
L’autore avverte il peso della storia che ha tra le mani. Raccontare e leggere questa vicenda individuale e insieme collettiva, singola nel suo carattere universale, unica e globale, significa aprire uno scrigno che sarebbe dovuto rimanere sigillato per sempre, nascosto in eterno sotto la terra che copriva i martiri di Cefalonia, sotto la cenere dei loro corpi bruciati. Significa conoscere e prendere coscienza di un orrore inconcepibile come lo è ogni massacro, recuperare una pagina strappata dal libro della memoria della quale non sarebbe dovuta rimanere traccia ma che, inaspettatamente, miracolosamente, finisce per emergere dalla storia. Ed Emiliano D’Alessandro sceglie consapevolmente di farsene testimone: egli s’avvicina alla storia di quell’uomo consumato dal tempo e dal dolore con lo spirito di giornalista e finisce per trascrivere le sue parole con l’animo di uomo.
L’atmosfera della narrazione è quella intimistica, delicata del ricordo. Salvatore ed Emiliano ne vivono i momenti più drammatici e più dolorosi davanti al fuoco calante del caminetto di casa di Salvatore. Trascorsi pomeriggio e sera a raccontare, i due si ritrovano a parlare in piena notte, fumando un sigaro nella calda calma domestica. In un dialogo mai interrotto, il vecchio e l’autore ripercorrono insieme per ore gli eventi vissuti a Cefalonia. E a me, lettrice, pare di sedere davanti a quel caminetto, ai piedi di quell’uomo e della sua storia. Nelle parole di Salvatore il terrore davanti al plotone d’esecuzione, lo stupore della salvezza insperata, la fuga dalla morte. E poi l’angoscia della solitudine, il sollievo dell’incontro, la meraviglia di sapere che un altro soldato italiano è scampato incredibilmente alla morte, esattamente come lui, e che porta il suo stesso nome: Salvatore. E poi di nuovo la fuga, il dolore. E infine la vita, il lavoro. L’amore per Maria.
Una storia così straordinaria, la sua, che, se non fosse accaduta realmente, sembrerebbe la trama di un romanzo, e quella di Emiliano D’Alessandro narrativa fantasiosa. Invece il libro è un album di vecchie fotografie, una scatola di ricordi di ciò ch’è realmente stato, sessantacinque anni fa. E l’autore consegna questa storia, vivida e vera, alla memoria di noi tutti. Nonostante la tragedia non mi riguardi se non come italiana, devo confessare che è stato difficile andare avanti con la lettura e provare ad immaginare, via via, la rabbia, il dolore, l’impotenza che può aver provato un uomo nel vivere quegli eventi in prima persona. Tuttavia l’autore mi ha letteralmente trascinata nella storia, con una prepotenza tale da costringermi a leggerla in una sera, tutta d’un fiato. E a non dimenticarla.

Maria Francesca Calvano

http://streetjournalist.wordpress.com/2008/06/13/la-collina-dei-fuochi-fatui/

Nessun commento: